Bob Dylan. Quale Dylan? Lo sbarbatello con la chitarra acustica a tracolla e la sigaretta di traverso? O quello più sofisticato con il cappellaccio, la giacca di fustagno e il dolcevita, uniforme di rito per i beatnik di inizio anni sessanta? Oppure quello con la giacca di pelle, i jeans a tubo, gli stivali a punta e gli occhiali scuri che strapazza una Stratocaster e impreca contro la comunità folk? O, forse, quello fulminato sulla via di Damasco che paresi nasconda tra la folla dei fedeli in una delle chiese evangeliche più all’avanguardia della California?
Di Dylan ce ne sono tanti e nessuno è il vero Bob Dylan, o forse lo sono tutti. Anzi, sembra quasi che non esista. Forse perché lui più di ogni altro artista del Novecento ha saputo incarnare le pulsioni contrastanti della società statunitense, spesso cavalcando l’onda del cambiamento e mimetizzandosi come un abile camaleonte umano.
Wicked Messenger non è l’ennesima biografia di Bob Dylan. È, piuttosto, il tentativo riuscito di ricostruire un periodo storico, quello degli anni sessanta, attraverso le liriche del cantautore più importante di sempre.