“Al Matt”, “al Tedesch” sono solo due dei molti nomignoli affibbiati nel corso degli anni ad Antonio Ligabue (1899-1965), il più noto tra i pittori naïf del Novecento italiano. Disprezzato, schernito, rifiutato, segnato da una infanzia fatta di miseria, disperazione e abbandono, dalla malattia e dai tanti ricoveri in manicomio, per anni andò elemosinando un bacio, una carezza: «Non sai quanto bene mi fa», diceva.
Divenuto famoso prima come personaggio e poi come artista, non ebbe casa, né famiglia; viveva all’aperto, dormiva sotto la luna, mangiava quel che capitava, quando capitava. Quando arrivava in paese, i bambini scappavano e le donne per lui provavano ribrezzo: i vestiti logori, la barba non fatta e poi, in fronte, le cicatrici che si procurava per disperazione, per somigliare a un’aquila e poter volare via.
Di Ligabue, queste pagine raccontano le sofferenze dell’uomo immerso nel “Mondo piccolo” del “Grande Fiume”. Attraverso un gioco di rimandi e citazioni, Nazareno Giusti ricostruisce e immagina la vita del pittore emiliano e i suoi incontri con il suo mentore, il pittore Mazzacurati, ma anche con i soldati tedeschi, gli uomini di Mussolini e le tigri scappate da chissà quale circo. In una Bassa raffigurata come un ambiente metafisico la sua forma di vita sembra trovare espressione in un grande ruggito arcaico, disperato e profondo.